11 settembre 2001, un giorno che irrompe nella storia con la semplicità dell’impossibile. Il mondo vede in diretta sullo schermo domestico l’America attaccata dai terroristi e colpita nei suoi simboli di superpotenza economica e militare: 2 aerei di linea dirottati, a distanza di un quarto d’ora, si schiantano contro le 2 torri gemelle del World Trade Center di Manhatann a New York. Sono i grattacieli più alti della metropoli, 420 metri, 110 piani. Ospitano 500 società internazionali, banche, agenzie di assicurazioni, ditte immobiliari, ristoranti, bar. Vi lavorano 50 mila persone. Sono anche un polo di attrazione turistica: 70 mila visitatori al giorno. I ragazzi che vanno per la prima volte a Manhattan di solito salgono all’ultimo piano della Torre per godersi il panorama: si dominano la baia, la Statua della Libertà e gli edifici di Ellis Island, la prima tappa degli emigranti in America. Quel giorno di settembre il cielo è terso e il sole tiepido. Le mamme accompagnano a scuola i bambini, uffici e negozi stanno aprendo. Ma ecco uno schianto improvviso, la vampata e il blu del cielo diventa nero di fumo e di detriti. Persone disperate si sporgono dalle finestre: alcune precipitano nel vuoto, altre vengono divorate della fiamme. Un terzo aereo pilotato da altri terroristi kamikaze (parola che significa “vento divino”: così si chiamavano i piloti giapponesi che durante l’ultima guerra si schiantavano volontariamente contro le navi nemiche) si getta sul Pentagono, il “cervello” del comando militare USA costruito sulle rive del fiume Patomac, a Washington. Un quarto precipita a Pittsburgh, in Pennsylvania, ed è il solo a non centrare il bersaglio. Le fiamme dei jet fendono l’acciaio. Dopo un’ora di rogo, le due torri si sbriciolano come biscotti e scompaiono nel polverone denso che avvolge l’intera Manhattan. Dirà un cosmonauta: “Da 384 chilometri di d’altitudine, abbiamo visto la colonna di fumo salire da New York”. Crollano anche altri palazzi. Un’apocalisse: migliaia di sepolti sotto le macerie, pochi i sopravvissuti. Muore anche il mito della superpotenza invulnerabile. E tutti noi, che pensiamo di vivere in un mondo civile, ci sentiamo più fragili, consapevoli che è cominciata una guerra anomala, mai dichiarata, contro un nemico invisibile che può colpire in qualsiasi momento, anche il bersaglio più insospettato. Un nemico miserabile e vile che colpisce alla cieca, indifferente allo strazio di mamme e bambini. Per questo nemico, il martirio è onore e privilegio.
domenica 30 dicembre 2007
11 settembre 2001
11 settembre 2001
11 settembre 2001, un giorno che irrompe nella storia con la semplicità dell’impossibile. Il mondo vede in diretta sullo schermo domestico l’America attaccata dai terroristi e colpita nei suoi simboli di superpotenza economica e militare: 2 aerei di linea dirottati, a distanza di un quarto d’ora, si schiantano contro le 2 torri gemelle del World Trade Center di Manhatann a New York. Sono i grattacieli più alti della metropoli, 420 metri, 110 piani. Ospitano 500 società internazionali, banche, agenzie di assicurazioni, ditte immobiliari, ristoranti, bar. Vi lavorano 50 mila persone. Sono anche un polo di attrazione turistica: 70 mila visitatori al giorno. I ragazzi che vanno per la prima volte a Manhattan di solito salgono all’ultimo piano della Torre per godersi il panorama: si dominano la baia, la Statua della Libertà e gli edifici di Ellis Island, la prima tappa degli emigranti in America. Quel giorno di settembre il cielo è terso e il sole tiepido. Le mamme accompagnano a scuola i bambini, uffici e negozi stanno aprendo. Ma ecco uno schianto improvviso, la vampata e il blu del cielo diventa nero di fumo e di detriti. Persone disperate si sporgono dalle finestre: alcune precipitano nel vuoto, altre vengono divorate della fiamme. Un terzo aereo pilotato da altri terroristi kamikaze (parola che significa “vento divino”: così si chiamavano i piloti giapponesi che durante l’ultima guerra si schiantavano volontariamente contro le navi nemiche) si getta sul Pentagono, il “cervello” del comando militare USA costruito sulle rive del fiume Patomac, a Washington. Un quarto precipita a Pittsburgh, in Pennsylvania, ed è il solo a non centrare il bersaglio. Le fiamme dei jet fendono l’acciaio. Dopo un’ora di rogo, le due torri si sbriciolano come biscotti e scompaiono nel polverone denso che avvolge l’intera Manhattan. Dirà un cosmonauta: “Da 384 chilometri di d’altitudine, abbiamo visto la colonna di fumo salire da New York”. Crollano anche altri palazzi. Un’apocalisse: migliaia di sepolti sotto le macerie, pochi i sopravvissuti. Muore anche il mito della superpotenza invulnerabile. E tutti noi, che pensiamo di vivere in un mondo civile, ci sentiamo più fragili, consapevoli che è cominciata una guerra anomala, mai dichiarata, contro un nemico invisibile che può colpire in qualsiasi momento, anche il bersaglio più insospettato. Un nemico miserabile e vile che colpisce alla cieca, indifferente allo strazio di mamme e bambini. Per questo nemico, il martirio è onore e privilegio.
11 settembre 2001, un giorno che irrompe nella storia con la semplicità dell’impossibile. Il mondo vede in diretta sullo schermo domestico l’America attaccata dai terroristi e colpita nei suoi simboli di superpotenza economica e militare: 2 aerei di linea dirottati, a distanza di un quarto d’ora, si schiantano contro le 2 torri gemelle del World Trade Center di Manhatann a New York. Sono i grattacieli più alti della metropoli, 420 metri, 110 piani. Ospitano 500 società internazionali, banche, agenzie di assicurazioni, ditte immobiliari, ristoranti, bar. Vi lavorano 50 mila persone. Sono anche un polo di attrazione turistica: 70 mila visitatori al giorno. I ragazzi che vanno per la prima volte a Manhattan di solito salgono all’ultimo piano della Torre per godersi il panorama: si dominano la baia, la Statua della Libertà e gli edifici di Ellis Island, la prima tappa degli emigranti in America. Quel giorno di settembre il cielo è terso e il sole tiepido. Le mamme accompagnano a scuola i bambini, uffici e negozi stanno aprendo. Ma ecco uno schianto improvviso, la vampata e il blu del cielo diventa nero di fumo e di detriti. Persone disperate si sporgono dalle finestre: alcune precipitano nel vuoto, altre vengono divorate della fiamme. Un terzo aereo pilotato da altri terroristi kamikaze (parola che significa “vento divino”: così si chiamavano i piloti giapponesi che durante l’ultima guerra si schiantavano volontariamente contro le navi nemiche) si getta sul Pentagono, il “cervello” del comando militare USA costruito sulle rive del fiume Patomac, a Washington. Un quarto precipita a Pittsburgh, in Pennsylvania, ed è il solo a non centrare il bersaglio. Le fiamme dei jet fendono l’acciaio. Dopo un’ora di rogo, le due torri si sbriciolano come biscotti e scompaiono nel polverone denso che avvolge l’intera Manhattan. Dirà un cosmonauta: “Da 384 chilometri di d’altitudine, abbiamo visto la colonna di fumo salire da New York”. Crollano anche altri palazzi. Un’apocalisse: migliaia di sepolti sotto le macerie, pochi i sopravvissuti. Muore anche il mito della superpotenza invulnerabile. E tutti noi, che pensiamo di vivere in un mondo civile, ci sentiamo più fragili, consapevoli che è cominciata una guerra anomala, mai dichiarata, contro un nemico invisibile che può colpire in qualsiasi momento, anche il bersaglio più insospettato. Un nemico miserabile e vile che colpisce alla cieca, indifferente allo strazio di mamme e bambini. Per questo nemico, il martirio è onore e privilegio.
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